Nel 1806 per volere di Giuseppe Bonaparte l’Udienza di Trani viene spostata a Bari e diventa Intendenza di Bari. Anche se Trani è una delle più belle città delle Puglie, con un porto molto attivo e una tradizione giuridica di eccellenza (che conserverà), Bari venne considerata dai Francesi una città con maggiori potenzialità di sviluppo e con una maggiore centralità rispetto al territorio provinciale. Inoltre il suo ceto mercantile sembra già essere particolarmente attivo e lungimirante.

Come dice Biagio Salvemini in “Il ‘grande secolo’ della storia di Bari”, pag. V, in  Storia di Bari nell’Ottocento, Laterza, Bari 1994, ciò che colpisce chi vive quel passaggio di secolo in città è “la quantità di ‘nuovo’ (…) la massa del costruito distesa su un’area che era stata da sempre occupata dagli orti periurbani; un centro antico ridotto a periferia di emarginati; il moltiplicarsi di figure e ceti nuovi che riducono in un angolo appartato ed ininfluente dello spazio sociale i produttori agricoli della secolare agritown; la mobilità sociale e geografica che contribuisce a complicare i rapporti sociali e politici; il macchinismo emergente con prepotenza nelle gru del porto, nella ferrovia e nelle ciminiere che stringono la città da ogni lato”. Bari non è più una agritown sul mare, cioè una città mercantile totalmente dipendente dal commercio di beni agricoli prodotti nei Casali, che non controlla politicamente, ma si sta trasformando in una città commerciale e borghese, dove la vera differenza la fanno i negozianti. I quali in un primo momento tendono “ad autoescludersi dai ruoli politici più in vista provinciali e locali, lasciandoli nelle mani di una nobiltà cittadina e provinciale non sempre di grande prestigio e spesso pesantemente indebitata con gli stessi negozianti”(da “Il ‘grande secolo’ della storia di Bari” di Biagio Salvemini, pag. XII), che in questo modo comunque influenzano le scelte di chi governa.

Dalla metà degli anni Trenta, grazie alla riforma di Ravanas, ci si specializza nella lavorazione delle olive con tecniche che consentono di avere un olio migliore, sia per usi industriali e cosmetici (il sapone) che per uso alimentare; e si finanziano società di negozio con risorse che affluiscono da numerosi speculatori , grossi e piccoli (professionisti, proprietari fondiari, pubblici funzionari, appaltatori di imposte), gettando le basi per la diffusione di attività creditizie di intermediazione. I commercianti diventano la prima forza economica della città e ora sono pronti a gestirla in una forma di autogoverno che, dando priorità alla proprie necessità, in realtà riesce a innescare un processo che potrebbe definirsi come un vero e proprio boom economico. Simbolo di questo sviluppo improvviso e importante è il Borgo Murattiano, voluto, finanziato e abitato dal ceto mercantile, che ben presto potrà essere indicato come medio-alta borghesia urbana.

“La costruzione del nuovo porto, l’espansione del movimento commerciale del vecchio, la febbrile attività edilizia della città, le nuove strutture del credito e gli altri servizi al commercio e alla produzione, la costruzione di alcuni stabilimenti manifatturieri, la crescita notevole delle funzioni amministrative e militari connotano il ventennio 1850-1870 come una delle fasi più dinamiche nella storia della Bari ottocentesca e spiegano in buona misura il boom delle immigrazioni.” (da “La crescita demografica: tendenze generali” di Saverio Russo, pag. 19, in  Storia di Bari nell’Ottocento, Laterza, Bari 1994)

Bari arriva così all’Unità d’Italia completamente trasformata. È una città capoluogo che presenta uno sviluppo demografico sostenuto, tanto da essere una delle prime città continentali del Regno Borbonico per numero di popolazione. Ha una notevole vivacità economica, è il punto di arrivo di una fitta rete viaria e di una rete ferroviaria in pieno sviluppo, è sede di una Camera Consultiva di Commercio, della Borsa merci, del Tribunale di commercio e del Banco delle Due Sicilie. E nel 1863 viene fondata la Camera di Commercio ed Arti, di cui Giuseppe Capriati è primo presidente.

Come emerge dall’Annuario storico-statistico-commerciale di Bari e Provincia di Domenico Mele negli anni Ottanta dell’800 Bari è sede di strutture di servizio, come consolati, sportelli bancari e agenzie di cambio (una quindicina gestita da privati come il marchese Diana), servizi postali e telegrafici. Numerosi negozianti operano nel commercio all’ingrosso, il cui volume d’affari è imponente; sono grossisti e mediatori di prodotti tipici delle Puglie (mandorle, olio, vino cereali) provenienti non solo dagli ex casali (ormai appendice urbana) ma da tutta la provincia grazie a una capillare rete di infrastrutture e servizi che permette di trasferire rapidamente, e a basso costo, nel capoluogo le merci da esportare e di far defluire con rapidità quelle importate dall’estero o da altre parti del Regno (si veda “Produzione, commercio e infrastrutture nel decollo di Bari” di Angelo Massafra, in Storia di Bari nell’Ottocento, Laterza, Bari 1994, pagg. 93-161,). Negli anni Ottanta-Novanta, il capoluogo con il suo nuovo porto domina nell’export di olio di oliva e mandorle, nelle importazioni di merci di valore unitario (alcool in botti, vetri, cristalli e porcellane, pelli lavorate) e di valore aggiunto come i generi coloniali (droghe, medicinali, zucchero e caffè), macchine e materiali ferrosi, tessuti e mercerie, e di generi alimentari di largo e crescente consumo, come formaggi e salumi, pesci secchi, affumicati e in salamoia.

LA NASCITA DEL CETO MEDIO-PICCOLO BORGHESE

Intorno all’Intendenza si sviluppa una rete burocratica che trasforma Bari anche in una città amministrativa. Negli anni Cinquanta è ormai presente in città una fitta rete di uffici e funzionari pubblici, i quali costituiscono una nuova classe sociale, che però solo verso la fine del secolo assume una sua netta connotazione. Agli inizi “la carica pubblica serviva anche a remunerare e a ricompensare lealismi e l’attribuzione stessa di incarichi, specie nei gradini più alti dell’amministrazione, rispondeva a criteri che premiavano l’affidabilità politica o la rappresentatività sociale di coloro che a quelli venivano chiamati” (in “Apparati pubblici e vita politica: dalle riforme francesi alla crisi dello stato amministrativo” di Angelantonio Spagnoletti, pag. 185, in Storia di Bari nell’Ottocento, Laterza, Bari 1994), e molti semplici impiegati erano scrivani e persone con un livello più alto di cultura che non venivano pagati granché. Nel 1882 il commissario Carlo Astengo, regio delegato straordinario al Municipio di Bari, propone una riforma della pubblica amministrazione che dà valore alla figura dell’impiegato pubblico: persona esemplare, contraddistinta per decoro, prudenza e moderazione, con una preparazione culturale adeguata al ruolo che ricopriva (uomini di legge, con cultura umanistica e amministrativa) e giustamente retribuita. Agli uffici pubblici si doveva accedere per requisiti di studio e concorso perché era giusto dare ai pubblici funzionari la garanzia di un posto fisso, indipendente dai favori di chi governa. 

L’impiegato pubblico, che spesso negli atti verrà definito civile, andrà ad arricchire quella piccola e media borghesia, composta da professori, maestri, impiegati, ragionieri, geometri, che verrà alla ribalta dopo l’Unità d’Italia e la concessione del suffragio elettorale a tutti i maschi che pagavano almeno 20 lire per contribuzioni dirette, oltre che per patrimonio o capacità.

 

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